sabato 13 novembre 2010

LA CRITICA: Jean Dubuffet

(Dentro e Fuori l'Avanguardia)
di G. Bonanno

Saggi critici e recensioni su: Kengiro Azuma, Francis Bacon, Paolo Barrile, Carlo Carrà, Marc Chagall, Jean Dubuffet, Franco Francese, Antonio Freiles, Max Huber, Gabriele Jardini, Osvaldo Licini, Ruggero Maggi , Kazimir Malevic, Mattia Moreni, Idetoshi Nagasawa, Emil Nolde, Mimmo Paladino, Pino Pascali, Mario Raciti, Roberto Sanesi, Francesco Somaini, Chaim Soutine, Graham Sutherland, Jorrit Tornquist, Willy Varlin, Wols.



Jean Dubuffet : L’arte tra follia e creatività.

Dopo la stasi dei mesi scorsi, la situazione artistica a Milano si è destata con una serie di mostre di grande interesse. Questa volta, però, sono i privati che in assenza di una vera politica culturale stanno dando una scossa energica alla vecchia e stanca Milano, prospettando rassegne di un certo prestigio, come quella su Jean Dubuffet alla Galleria Blu di via Senato 18, con circa 30 opere tra disegni, tecniche miste, collages e olii eseguiti tra il 1948 e il 1991, organizzata nell’ambito di una vasta proposta espositiva “L’anormalità dell’Arte”, in programma alla Galleria del Credito Valtellinese presso il Palazzo delle Stelline. Due mostre da visitare se si vuole veramente comprendere il lavoro dell’artista francese e il pensiero dell’ Art Brut. La rassegna “L’anormalità dell’Arte” è stata curata da Gigliola Rovasino e da Bianca Tosatti, comprende oltre cento lavori tra artisti molto conosciuti come Bacon Klee, Chagall, Pollock, Savinio, Giacometti , Tancredi, Warhol e personaggi completamente sconosciuti e al di fuori del mondo dell’arte; i cosiddetti “malati di. mente”, come Guido Boni, Marco Raugei, Giordano Gelli o Adolph Wolfli, stupratore di bambini, rinchiuso all’inizio del secolo in un ospedale psichiatrico in Svizzera. Quali sono i motivi che hanno spinto i curatori a confrontare il lavoro di questi personaggi apparentemente senza punti di contatto? Questa rassegna risulta straordinariamente interessante proprio perchè si cerca ad indagare sulla cosiddetta “normalità e anormalità” nella vita e nell’arte, ovvero, tra la creazione spontanea dei malati di mente (l’Art Brut) e l’Art Cultural degli artisti. Di certo, la nostra società, per comodo, ha sempre fatto una netta distinzione tra un’arte ingenua e quella colta, innestando un alto spartiacque, che ha sempre delimitato le due esperienze, purtroppo, si è capito troppo tardi che non esiste una chiara linea di demarcazione che possa separare facilmente le due situazioni. Oggi, in un contesto assai alienato è molto più facile trovare la cosiddetta “anormalità”; quante persone vanno a curarsi dall’analista perchè soffrono di strane fobie, di nevrosi e persino di allucinazioni. Come è possibile tracciare una linea che demarchi la normalità dall’anormalità, la logica dal delirio, il gioco dall’ossessione. Tutto ciò risulta difficilmente decifrabile. Certamente, uno degli artisti che capì per primo questo grosso dilemma è stato Jean Dubuffet,che con”l’Art Brut” creò quel movimento capace di difendere l’arte dei malati di mente da quella”accademica . Il binomio “arte -follia” si era posto già nel mondo greco con la “ispirazione”, che faceva dell’artista un esecutore prediletto degli dei. Cesare Lombroso, nell’Ottocento, capì che l’arte era sinonimo di follia e che la follia era una esigenza prioritaria per produrre arte, infatti nel 1882, scriveva: “La follia soventemente sviluppa l’originalità della invenzione perchè, lasciato più libero il freno dell’immaginazione, da luogo a creazioni da cui rifuggirebbe una mente troppo calcolatrice per paura dell’illogico e dell’assurdo...”. Lo stesso Dubuffet, spesso, confessava:”Credo che in Occidente si abbia torto a considerare la follia come valore negativo, credo che la follia sia un valore positivo molto prezioso”. In questa rassegna la cultura “alta” dell’arte si confronta con quella “bassa” dei malati di mente, finalmente, la follia e la cultura convivono tranquillamente, trovando, anche, inaspettati punti di contatto. Per quanto riguarda Jean Dubuffet, dobbiamo convenire che in lui ha giocato a suo favore il fascino indiscreto dell’insolito, del mistero, essendo sempre stato interessato ad indagare sul versante “non logico” della visione e quindi a dare dignità e destino alla follia e al delirio. L’artista francese era nato a Le Havre nel 1901 ed era morto nel 1985 a Parigi. A circa centenni aveva iniziato a dipingere, ma è soprattutto nella seconda metà del secolo che aveva trovato, grazie alla complicità dei malati di mente, gli stimoli e la situazione adatta per dare una “sterzata vitale” a tutta la storia dell’arte. In tutti questi lunghi anni di lavoro, Dubuffet ha sempre lavorato per cicli, dalla “Preistoria” (1917 -1942), dove si alternano momenti di abbandono e di ripresa dell’ attività, fino alla produzione continua che va dal 1942 al 1984, dalla materia e dell’informale degli anni 50 al ciclo dell’Hourloupe del 1974, tutto proteso verso un’arte totale, per poi concludere con l’ultimo ciclo di lavoro in cui cerca di riprendere le vecchie ricerche e definire strani grovigli di materia che stanno sospesi tra la figurazione e l’astrazione, tra l’essenza selvaggia e la natura. Libero da preconcetti, attento a riflettere silenziosamente su possibili “nuove situazioni” e soprattutto, a rimettersi continuamente in gioco, cambiando spesso i connotati al suo lavoro e progettando situazioni sempre più imprevedibili; lo confermano proprio gli ultimi lavori che vivono dentro la penombra dell’immagine, sospesi in un contesto anemico. Di sicuro, Dubuffet è stato il personaggio più singolare dell’arte del nostro secolo, l’unico che ha saputo liberarsi dalle costrizioni della cultura ufficiale, e alla bisogna, dare fiato al flusso dirompente del pensiero selvaggio, del resto, l’atto d’arte senza freni inibitori, deve per forza implicare l’alta febbre della follia e del delirio; tutto ciò può mai essere considerato normale?

Pubblicato su  Dialogo  n°131 - gennaio/febbraio,  1994  Anno XVII         pag. 26