sabato 13 novembre 2010

LA CRITICA: Kengiro Azuma

(Dentro e Fuori l'Avanguardia)
di G. Bonanno

Saggi critici e recensioni su: Kengiro Azuma, Francis Bacon, Paolo Barrile, Carlo Carrà, Marc Chagall, Jean Dubuffet, Franco Francese, Antonio Freiles, Max Huber, Gabriele Jardini, Osvaldo Licini, Ruggero Maggi , Kazimir Malevic, Mattia Moreni, Idetoshi Nagasawa, Emil Nolde, Mimmo Paladino, Pino Pascali, Mario Raciti, Roberto Sanesi, Francesco Somaini, Chaim Soutine, Graham Sutherland, Jorrit Tornquist, Willy Varlin, Wols.




-Kengiro Azuma: l’essenza come presenza immateriale.
Ancora un’altra bella antologica organizzata al Museo d’Arte di Mendrisio, questa volta dedicata ad uno dei più interessanti scultori contemporanei: Kengiro Azuma. Nonostante l’apparente semplicità del suo lavoro, parlare di Azuma (Yamagata,1926) risulta assai complesso e difficile. L’ho incontrato per la prima volta a Mendrisio in occasione di questa sua antologica , sebbene conosca da tempo il suo lavoro di ricerca. Dapprima sembra impacciato, riservato, dopo un pò si lascia andare e incomincia a raccontare la sua vita, i primi anni di sofferenza, la fame, la grande ammirazione per Marino Marini e il suo vero amore: la scultura. Ora non è più silenzioso, sembra un fiume in piena carico di energia, di entusiasmo e in certi momenti anche di mistero, proprio come certi guerrieri a cavallo ritrovati recentemente in Cina. Non a caso il suo primo e vero interesse è stato verso i cavalli e i cavalieri di Marino. Kengiro, dopo aver frequentato l’accademia di Belle Arti di Tokyo, nel 1956 diventa assistente nella stessa Università. Per più di sei anni si trova a vivere nella stessa casa con Atsuo Imaizumi, oggi storico dell’arte e vicedirettore del Museo nazionale d’arte moderna. Di certo, Azuma viene a conoscere il lavoro di Marino per mezzo Imaizumi, che aveva ammirato le opere dello scultore pistoiese al Museo d’Arte Moderna di Roma, ma soprattutto, da una monografia scritta da Umbro Apollonio nel 1953, Ed. del Milione di Milano, (non nel 1948, come risulta nella presentazione in catalogo). Dopo aver guardato all’Ottocento e al Novecento, l’artista capisce che la nuova scultura non può essere quella studiata all ‘Accademia assieme a Kazuo Kikuchi e Toyoichi Yamamoto, allievi, rispettivamente di Despiau e Maillol. Così, nel 1956, decide di venire a Milano a frequentare il corso di scultura con Marino all’Accademia di Brera, grazie ad una borsa di studio offerta dal governo italiano. Partito da esiti di tipo accademico (Nudo,1950), a contatto con Marino tenta di rinnovare il suo modo di fare scultura (Nudo, 1956), tuttavia, è proprio il fascino esercitato dal grande artista toscano che gli impedisce di evidenziare la sua vera visione del mondo. Marino, più di una volta prova a metterlo in guardia consigliandolo a scavare in se stesso: L’ammirazione non deve diventare imitazione”. Azuma capisce che deve trovare una soluzione ai suoi problemi. Nonostante la lontananza dal suo Giappone, l’insoddisfazione e gli stenti, riesce alla fine a riscoprire le proprie radici e a rifiutare la tridimensionalità delle sue prime esperienze plastiche, riducendo la volumetria e strutturando la forma per piani, fino a trovare nella bidimensionalità la giusta esigenza espressiva. Nel 1961 nascono i primi “MU” e verso il 1984-85 gli “YU”. Secondo l’artista giapponese, il MU, l’invisibile, il vuoto, il nulla è complementare dello YU, il visibile, il pieno, il tutto. Sono le due facce della stessa medaglia; sia il MU che lo YU per svelarsi hanno bisogno di. integrarsi reciprocamente. Alla fine si identificano e si completano l’uno nell’altro. Se viene a mancare uno di questi elementi non ci può essere rivelazione, infatti, per conoscere il visibile c’è bisogno di capire l’invisibile e l’ignoto, così come per conoscere la forma c’è bisogno dello spazio. Per noi europei, la scultura esiste come forma e presenza autonoma che esclude un rapporto “coitale” con lo spazio. Mentre per la cultura orientale e la Filosofia Zen, ogni elemento per significare qualcosa, deve necessariamente integrarsi col suo doppio. Per Azuma, lo spazio ha la stessa importanza della forma volumetrica. Trovo molto interessanti i lavori bidimensionali di questo primo periodo di lavoro, proteso ad una sorta di tridimensionalità tutta interna; quasi una volumetria in negativo. Le sue superfici non evidenziano il vuoto,”l’assenza”,come afferma Luciano Caramel, semmai, “la presenza dell’essenza “, una presenza di cose scomparse ma ancora visibili seppur in”negativo”. Insomma, i “vuoti” non sono altro che “essenze” tangibili di una presenza ormai dissolta resa incorporea e immateriale, una presenza che diventa, alla fine, impronta, e traccia sfuggente. Credo che senza liberarsi della concezione tipicamente occidentale dello spazio, non possiamo comprendere appieno la giusta dimensione del lavoro di Kengiro Azuma. Soltanto nel vuoto risiede quello veramente essenziale. L’utilità di un vaso non sta nella sua forma esteriore, ma nello spazio vuoto, un vuoto che può contenere una forma, e quindi tramutarsi ancora in pieno. Solo nel vuoto ci può essere un’altra forma. Negli ultimi tempi, dopo una lunga serie di opere incentrate nella bidimensionalità della superficie, Azuma sente la necessità di definire i suoi eventi in forme sempre più tridimensionali, fendendo e svelando l’intima struttura interna. Tuttavia, dobbiamo notare in qualche opera come la “Composizione” del 1965, realizzata in tubi di ottone o il “MU 464”,versione gigante del “MU 116” del 1964, che il tentativo di Kengiro viene risolto in modo inopportuno, creando elementi che tendono ad assumere forme pure nello spazio, decisamente estranee alla vera sensibilità dello scultore giapponese. E’ con opere come “MU 749” e “MU 765” del 1976 o lo “YU 84” del 1987 che Azuma ritrova la sua autentica vena visionaria. Dopo il MU, nel 1984-85, scopre lo YU. Makoto Coka si chiede: non ho la più pallida idea del significato che l’artista dà al repentino passaggio dai MU agli YU. Non si intravedono segni particolari, inoltre, nella serie YU ricorrono gli stessi celebri vuoti della serie MU” - e conclude - “il passaggio dai MU agli YU si spiegano solo in minima parte con le differenze esteriori”. Ancora una volta ci troviamo impossibilitati a separare i due momenti. Il 1994 è l’anno che il grande Azuma, non contento, si permette di aprire, una nuova stagione di ricerca alla sua scultura. In un disegno dal titolo “KU 941”,i l MU si integra con TU per diventare “KU”. Chissà, un’altro tentativo d’integrazione e di sintesi ? Di certo, Azuma sa impregnare di eternità e di struggente emozione la sua scultura, sa condensare nella sintesi e nella simbologia della forma, l’armonia, la serenità, l’assorto silenzio della natura e anche il trascorrere impetuoso della vita Ma la vita cos’è? “La vita è breve, ma cento anni sono tanti, per arrivare a cento anni basta chiudere gli occhi, il tempo passa veloce . Parola di Kengiro Azuma.

Pubblicato su  Dialogo  n°135 - novembre/dicembre, 1994  Anno XVII         pag. 25