giovedì 18 novembre 2010

Il DIBATTITO: DENTRO E FUORI L'AVANGUARDIA

SIGNOR CRITICO  POSSO CRITICARE?
(La critica d'arte, dentro e fuori l'avanguardia)
di Giovanni Bonanno




 
-  La cultura dell’inganno


In Italia, ogni anno, specialmente durante il periodo estivo, vengono allestite costose mostre al fine di fare il punto sulla situazione attuale dell’arte contemporanea e con lo scopo essenziale di fissare un pò di ordine nel sistema caotico delle ricerche figurative. Ogni decennio, il nostro Renato Barilli ci ipotizza dove andrà l’arte nei prossimi anni (Gli anni novanta). Naturalmente, il solito A.B.O. (Achille Bonito Oliva), di volta in volta, cambia pelle e si ritrova a prospettare, anche lui, nuove situazioni e nuovi personaggi. Sono ormai tanti i giovani critici alla moda, tutti pronti a lodare i cascami di questa società ormai‘omologata”, con un frasario critico poco credibile; vedi il giovane Marco Senardi, che recensendo su Flash Art una mostra di Remo Salvadori, alla Galleria Stein di Milano, scrive: “........sulla parete più grande si allineano delle sagome di rame che mimano delle specie di tazze; sulla parete più piccola dei fogli di piombo sono bucati in forma di decoro ripetitivo; un grande “tavolo” di rame, occupa tridimensionalmente lo spazio, affiancando, in questa opera di appropriazione, da un rotolo di lamiera di rame sormontato da un foglio macchiato e da due contenitori di vetro rovesciati. Evidentemente lo iato tra rappresentazione e scultura si dipana tra superficie bidimensionale e tridimensionale: il piombo mostra la sua “altra faccia” nel traforo che lo estetizza, l’effetto tridimensionale delle “tazze” è dato semplicemente da due fogli sovrapposti di rame, mentre un foglio arrotolato diventa una “scultura” cilindrica”. Solo leggendo un testo del genere si può comprendere la triste condizione di cui versa la giovane critica contemporanea. Chissà perché i cambiamenti in arte dovrebbero avvenire ogni 10 anni, a scadenze programmate? chissà perché si ha tutti voglia di appropriarsi di giovani, magari alle prime armi e prospettare ipotesi possibili e situazioni nuove? Credo che la velleità della critica si mostra proprio in queste contraddizioni; si crede che una data anagrafica sia sinonimo di una possibile nuova visione “tutta contemporanea”, per cui un artista di media età si considera, quasi sempre, incapace a prospettare situazioni nuove di ricerca. Si parla molto di giovani e si rinnegano artisti che da anni lavorano solitari e appartati. In questo palcoscenico della confusione succede proprio di tutto. Ormai, non esistono più personalità indipendenti o ricerche personali, in questo villaggio globale, quasi tutta la produzione dei giovani artisti si assomiglia, per rendersene conto, basta visionare le pagine di certe riviste d’arte alla moda, in Italia o all’Estero. Si dice ch’è il gallerista oggi a dettare legge, non più il critico. E’ vero. Chi vuole stare al gioco del “successo” deve supinamente accettare certe idee imposte dall’alto. D’altra parte le multinazionali sono in grado di sviluppare strutture e situazioni, e queste creano gli artisti che spesso, sono intercambiabili come per i personaggi delle telenovelas. Oggi conta, soprattutto, la forza che ha il gallerista e con l’aiuto di qualche critico amico si possono “confezionare” con facilità situazioni tipo trans, neo, geo, post e via dicendo. Basta avere i soldi. Inoltre, in questi ultimi tempi i principali acquirenti non sono più dei privati, bensì società e musei, pertanto l’arte giovane si mostra con allestimenti, eventi, interventi plateali da veri scenografi dell’arte. D'altronde, le mostre sono ormai diventate una specie di “messa della domenica” dove si creano occasioni d’incontro tra personaggi che utilizzano l’evento per parlare di lavoro e firmare contratti finanziari di vario genere, per cui c’è bisogno di manufatti voluminosi per ricevere autorità, imprenditori o personalità di alto rango. Di fronte a questa nuova situazione meramente commerciale, la critica si trova spiazzata o quanto meno indifesa. Non è più possibile dire ci piace o se è banale quell’oggetto; i giudizi sono “inutilizzabili”. Del resto, l’arte non è più l’antitesi della società dal momento che l’artista aiutato finanziariamente, ha il compito di giocare con l’arte firmando qualsiasi oggetto o proponendo prodotti artistici di scarso valore estetico. A questo punto, per capirci, è il caso di parlare delle appropriazioni ludiche di quel famigerato personaggio dell’arte Americana che si chiama Jeff Koons che attualmente si trova citato in Tribunale per aver infranto le normative sui diritti d’autore, poiché ha utilizzato, senza autorizzazione, immagini di altri autori, o dei banali collage del Giapponese Yasumasa Morimura, che facendo dello spirito intorno alla pittura, sì permette di incollare fotografie di bambole tipo Barbie sopra crocifissioni di Cranach o di Durer. Ormai, per stupire qualcuno, l’artista deve inventarsi delle trovate impensabili, come per esempio: mostrarsi nudi al pubblico,con una farfalla vera tra il pene e il deretano, o mostrare come è il caso di Elena Berriolo, recinti di tela che danno una breve scossa elettrica allo spettatore che si avvicina. Mi chiedo, per comunicare bisogna arrivare a tanto? Naturalmente la colpa è anche del grande pubblico, poco educato all’arte, distratto, disinteressato e distante mille miglia da tali proposte,che fa inconsapevolmente il gioco dei soliti negrieri della cultura. Jonathan Borofsky, partecipando ad una rassegna d’arte tenuta recentemente a Berlino (Metropolis), si permette di mostrarci un pupazzo gigante in tutù da ballerina che muove una gamba come al carnevale di Viareggio, o Jan Fabre che ci fa vedere dei grandi contenitori di legno colorati blu “con la penna a biro”, e per di più si stupisce come il pubblico non riesca a capire la fatica dell’artista, in questo lavoro, secondo lui, davvero certosino. C’è chi mostra animaletti tipo Topo gigio o Topolino, chi cassette per pulcini, chi abbeveratoi per uccelli chi propone, anche, relitti di vere barche naufragate (Jannis Kounellis). Ormai ogni cosa va bene. Si gira da una galleria all’altra, da Milano a Parigi o New York e si ritorna allo stesso punto e alle stesse conclusioni di prima, però, con tanta confusione in più. Si ha la sensazione che l’arte sia veramente “morta”,come da lunghi anni afferma Argan. Forse di questi problemi dovrebbe occuparsene il sociologo, magari per capire come fino a poco tempo fa non si faceva cultura senza parlare di politica (Cina ,Vietnam) e oggi, disinteressati, ce ne freghiamo di tutto e di tutti, con i gravi problemi che attraversano l’intero pianeta, dalla situazione dell’Irak. alla guerra civile Yugoslava o alla triste realtà della Russia, che senza chiari progetti va sempre di più alla deriva. Non si capisce come si può fare arte senza considerare la situazione sociale, senza prendere coscienza della società che si trasforma e magari degenera in situazioni nuove, inaspettate, imprevedibili. Come si può far affidamento a certe trovate da baraccone piuttosto ludiche e ingenue, non per niente ironiche come ci vogliono far credere, che spingono l’arte e la creatività ad una sorta di grado “zero”, per niente utile a questa società, che oggi come non mai, ha bisogno di”certezze”.

Pubblicato su  Dialogo  n°119 - novembre/dicembre,  1991   Anno XIV         pag. 26