SIGNOR CRITICO POSSO CRITICARE?
(La critica d'arte, dentro e fuori l'avanguardia)
di Giovanni Bonanno
All’inizio l’artista assomigliava a Dio, possedeva la capacità per creare, oggi, è passato da creatore a semplice produttore, da artigiano a demiurgo. Le esperienze artistiche, nel corso di tutta la storia dell’arte, hanno avuto l’urgenza di essere il tramite per comunicare e produrre conoscenza. Ormai, non c’è più concentrazione, visione personale; tutto sembra identico e maledettamente consueto. Conoscere è diventato sinonimo di comunicare, ma comunicare significa creare? I giovani artisti di oggi sembrano molto aggiornati sulle varie ricerche artistiche in atto; sono convinti che basti conoscere le diverse riviste d’arte e ripetere certi stilemi richiesti dalla critica e dal mercato per poter fare arte, non riescono a capire che l’arte è un fare e non un rifare creare e non un ripetere, con il solito problema di ritrovarsi in una situazione altamente omologata, che si alimenta di provvisorietà e di esiti formalistici e decorativi. I tentativi di alcuni giovani studenti di Accademia in cerca di una visione particolare, possono essere anche giustificati. Non sono però giustificabili, proposte ingenue di tanti profittatori dell’arte, che consapevolmente, si fanno trainare dal mercato in strategie poco credibili e di scarso valore culturale. Herbert Marcuse, ne “L’uomo a una dimensione” scriveva: “liberare l’immaginario presuppone la repressione di molte cose. Una repressione liberatoria come antidoto alla (tolleranza repressiva)della società liberale. Essa non si libera da sola poiché è prigioniera dei suoi falsi bisogni”. Di certo, questa è una società povera di proposte, appiattita, quasi ad una dimensione Tanti artisti credono che basti fare gruppo e proporre delle “cose”, per poter fare arte. Questa voglia sfrenata di essere sempre presente in qualsiasi situazione impedisce a loro di comprendere appieno il limite di certe proposte, sembra che utilizzino l’occhio strabico di chi non vuole (o non riesce) svelare il proprio immaginario più intimo, censurando la propria creatività a tal punto da divenire balbettio “à la page”. L’arte non è ciò che si chiama “arte”. L’arte è ciò ch’è arte.” Elena Di Raddo, in un suo saggio approfondisce tali problematiche, affermando: “gli artisti giovani sono cresciuti sulle rovine di un’epoca carica di ideologie, coccolati dalla televisione e dai miraggi a portata di mano. E i sogni trovano poco spazio in una società che concede tutto senza fatica, che propone, quali mete, obiettivi del tutto privi dì significati culturali o ideali : l’automobile, la discoteca, il cellulare”. L’arte dei giovani esprime semplicemente la società dei giovani, le inquietudini e le incertezze affondate in un disperato attaccamento al godimento immediato, al consumo del piacere inteso quale prodotto qualsiasi della società , del benessere. Diventa primordiale, per questi giovani gestire alla meglio se stessi a livello manageriale, visitare certe gallerie, conoscere i critici al fine di far conoscere i l proprio lavoro, assecondando, spesso, le ultime proposte critiche. Un modello di ricerca -conclude Elena Di Raddo - che rischia di essere assimilato e assorbito all’ideale di uomo che la società contemporanea impone; un uomo che non trova più il tempo e lo spazio per sognare e per riflettere sulla sua difficile condizione. Tale questione, per un artista, è molto complessa e anche non facile da dipanare, bisognerà capire se desidera calarsi nel misterioso mondo del proprio io, invece, continuare a proporre discutibili ipotesi di lavoro, dove l’idiozia e la provocazione diventa pretesto e anche paralisi di idee. Ci ritorna in mente una mostra dal titolo :“Arte e misfatti” vista alla Galleria Pilat, con alcuni artisti che ripropongono in forma provocatoria il”ruolo” dell’artista nella società. A tal proposito, Rossana Bossaglia, scriveva la storia dell’arte è in larga misura storia di un’attività messasi al servizio del potere; o che rivendica per se una funzione di estraniamento dal quotidiano”, -e più avanti- ”chi scrive queste righe ha già formulato più volte l’opinione che l’arte concettuale avendo assunto tratti di gratuita divagazione, esaurita la sua funzione dissacratoria, ed essendo diventata a sua volta oggetto di mercato, abbia chiuso la sua funzione” -ammonendo- “questa piccola mostra suoni come memento agli artisti perché riflettano sul loro ruolo: abbiamo certo bisogno di arte come bellezza ma non di arte come evasione, in una società già troppo evasiva e anestetizzata”. Certamente, si ha paura di guardarsi allo specchio e vedere la nostra immagine riflessa, che forse non conosciamo e che ci crea fastidio. Questa situazione statica e indefinita dell’arte l’abbiamo, più volte, rilevato nei vari “Aperto” della Biennale di Venezia, che ha mostrato, sempre, il lato più precario dell’arte; quello della mera catalogazione di eventi neo e post-concettuali senza alcuna nuova ipotesi progettuale di lavoro. Inoltre, con l’ultimo “Aperto” della 45 a Biennale di Venezia, A. B. Oliva ha dichiaratamente abolito qualsiasi ipotesi di ricerca perché, ormai, non crede più nell’arte e quindi neanche in una creatività particolare e individuale. Secondo noi, un ipotesi personale di lavoro può nascere solo se esistono autentiche motivazioni. Purtroppo, l’artista contemporaneo si trova a un bivio; dovrà per forza scegliere se farsi assorbire dai mercato, producendo oggetti e cose legalizzati dal sistema ufficiale dell’arte, o guardarsi dentro e trovare le proprie motivazioni. Il futuro dell’arte può esserci, se verranno evidenziate tali possibilità creative e isolate di lavoro. Tutta l’arte passata è stata sempre definita da figure isolate che hanno preferito, giustamente, concretizzare il proprio lavoro nella sostanza del fare arte e non necessariamente nel presenzialismo e nella mercificazione. Queste brevi considerazioni ci fanno riflettere sulla precarietà anestetizzata del lavoro di tanti artisti e sulla non originalità degli interventi prodotti.
(La critica d'arte, dentro e fuori l'avanguardia)
di Giovanni Bonanno
- I sogni e i bi/sogni dell’arte
All’inizio l’artista assomigliava a Dio, possedeva la capacità per creare, oggi, è passato da creatore a semplice produttore, da artigiano a demiurgo. Le esperienze artistiche, nel corso di tutta la storia dell’arte, hanno avuto l’urgenza di essere il tramite per comunicare e produrre conoscenza. Ormai, non c’è più concentrazione, visione personale; tutto sembra identico e maledettamente consueto. Conoscere è diventato sinonimo di comunicare, ma comunicare significa creare? I giovani artisti di oggi sembrano molto aggiornati sulle varie ricerche artistiche in atto; sono convinti che basti conoscere le diverse riviste d’arte e ripetere certi stilemi richiesti dalla critica e dal mercato per poter fare arte, non riescono a capire che l’arte è un fare e non un rifare creare e non un ripetere, con il solito problema di ritrovarsi in una situazione altamente omologata, che si alimenta di provvisorietà e di esiti formalistici e decorativi. I tentativi di alcuni giovani studenti di Accademia in cerca di una visione particolare, possono essere anche giustificati. Non sono però giustificabili, proposte ingenue di tanti profittatori dell’arte, che consapevolmente, si fanno trainare dal mercato in strategie poco credibili e di scarso valore culturale. Herbert Marcuse, ne “L’uomo a una dimensione” scriveva: “liberare l’immaginario presuppone la repressione di molte cose. Una repressione liberatoria come antidoto alla (tolleranza repressiva)della società liberale. Essa non si libera da sola poiché è prigioniera dei suoi falsi bisogni”. Di certo, questa è una società povera di proposte, appiattita, quasi ad una dimensione Tanti artisti credono che basti fare gruppo e proporre delle “cose”, per poter fare arte. Questa voglia sfrenata di essere sempre presente in qualsiasi situazione impedisce a loro di comprendere appieno il limite di certe proposte, sembra che utilizzino l’occhio strabico di chi non vuole (o non riesce) svelare il proprio immaginario più intimo, censurando la propria creatività a tal punto da divenire balbettio “à la page”. L’arte non è ciò che si chiama “arte”. L’arte è ciò ch’è arte.” Elena Di Raddo, in un suo saggio approfondisce tali problematiche, affermando: “gli artisti giovani sono cresciuti sulle rovine di un’epoca carica di ideologie, coccolati dalla televisione e dai miraggi a portata di mano. E i sogni trovano poco spazio in una società che concede tutto senza fatica, che propone, quali mete, obiettivi del tutto privi dì significati culturali o ideali : l’automobile, la discoteca, il cellulare”. L’arte dei giovani esprime semplicemente la società dei giovani, le inquietudini e le incertezze affondate in un disperato attaccamento al godimento immediato, al consumo del piacere inteso quale prodotto qualsiasi della società , del benessere. Diventa primordiale, per questi giovani gestire alla meglio se stessi a livello manageriale, visitare certe gallerie, conoscere i critici al fine di far conoscere i l proprio lavoro, assecondando, spesso, le ultime proposte critiche. Un modello di ricerca -conclude Elena Di Raddo - che rischia di essere assimilato e assorbito all’ideale di uomo che la società contemporanea impone; un uomo che non trova più il tempo e lo spazio per sognare e per riflettere sulla sua difficile condizione. Tale questione, per un artista, è molto complessa e anche non facile da dipanare, bisognerà capire se desidera calarsi nel misterioso mondo del proprio io, invece, continuare a proporre discutibili ipotesi di lavoro, dove l’idiozia e la provocazione diventa pretesto e anche paralisi di idee. Ci ritorna in mente una mostra dal titolo :“Arte e misfatti” vista alla Galleria Pilat, con alcuni artisti che ripropongono in forma provocatoria il”ruolo” dell’artista nella società. A tal proposito, Rossana Bossaglia, scriveva la storia dell’arte è in larga misura storia di un’attività messasi al servizio del potere; o che rivendica per se una funzione di estraniamento dal quotidiano”, -e più avanti- ”chi scrive queste righe ha già formulato più volte l’opinione che l’arte concettuale avendo assunto tratti di gratuita divagazione, esaurita la sua funzione dissacratoria, ed essendo diventata a sua volta oggetto di mercato, abbia chiuso la sua funzione” -ammonendo- “questa piccola mostra suoni come memento agli artisti perché riflettano sul loro ruolo: abbiamo certo bisogno di arte come bellezza ma non di arte come evasione, in una società già troppo evasiva e anestetizzata”. Certamente, si ha paura di guardarsi allo specchio e vedere la nostra immagine riflessa, che forse non conosciamo e che ci crea fastidio. Questa situazione statica e indefinita dell’arte l’abbiamo, più volte, rilevato nei vari “Aperto” della Biennale di Venezia, che ha mostrato, sempre, il lato più precario dell’arte; quello della mera catalogazione di eventi neo e post-concettuali senza alcuna nuova ipotesi progettuale di lavoro. Inoltre, con l’ultimo “Aperto” della 45 a Biennale di Venezia, A. B. Oliva ha dichiaratamente abolito qualsiasi ipotesi di ricerca perché, ormai, non crede più nell’arte e quindi neanche in una creatività particolare e individuale. Secondo noi, un ipotesi personale di lavoro può nascere solo se esistono autentiche motivazioni. Purtroppo, l’artista contemporaneo si trova a un bivio; dovrà per forza scegliere se farsi assorbire dai mercato, producendo oggetti e cose legalizzati dal sistema ufficiale dell’arte, o guardarsi dentro e trovare le proprie motivazioni. Il futuro dell’arte può esserci, se verranno evidenziate tali possibilità creative e isolate di lavoro. Tutta l’arte passata è stata sempre definita da figure isolate che hanno preferito, giustamente, concretizzare il proprio lavoro nella sostanza del fare arte e non necessariamente nel presenzialismo e nella mercificazione. Queste brevi considerazioni ci fanno riflettere sulla precarietà anestetizzata del lavoro di tanti artisti e sulla non originalità degli interventi prodotti.