sabato 13 novembre 2010

LA CRITICA: Mimmo Paladino

(Dentro e Fuori l'Avanguardia)
di G. Bonanno

Saggi critici e recensioni su: Kengiro Azuma, Francis Bacon, Paolo Barrile, Carlo Carrà, Marc Chagall, Jean Dubuffet, Franco Francese, Antonio Freiles, Max Huber, Gabriele Jardini, Osvaldo Licini, Ruggero Maggi , Kazimir Malevic, Mattia Moreni, Idetoshi Nagasawa, Emil Nolde, Mimmo Paladino, Pino Pascali, Mario Raciti, Roberto Sanesi, Francesco Somaini, Chaim Soutine, Graham Sutherland, Jorrit Tornquist, Willy Varlin, Wols.



-Mimmo Paladino:I fantasmi dell’ultimo Paladino
La galleria Arte 92 di Milano, dopo aver organizzato importanti esposizioni dedicate ad artisti ormai storici come Masson, Mathieu, Soto, Veronesi, Rainer e Pino Pascali, questa volta propone 18 opere del 1989 e 1990 di Minimo Paladino. L’artista, nato nel 1948 a Paduli (Benevento), ha iniziato la sua avventura artistica con opere concettuali esposte per la prima volta nel 1969 alle Studio Oggetto di Caserta. Opere, nate dal contatto con la situazione sperimentale degli anni 60 in Campania; una situazione carica di nuovi stimoli e voglia di rinnovamento e quindi, un vero laboratorio di ricerca, grazie anche all’apporto della rivista “Linea Sud”, che sotto la direzione di Luca (Luigi Castellani) e la collaborazione di Persico, Martini, Bugli e Caruso, a partire dal 63, tentò di prospettare nuove ipotesi di lavoro. Proprio in questa direzione Paladino indirizza i suoi primi lavori . Tuttavia, già nei primi anni di lavoro sente il bisogno, sempre più urgente di approdare a una diversa dimensione creativa dove il disegno, la manualità e il piacere della pittura diventano elemento modellante di nuove visioni. Così, dopo aver sperimentato l’immediatezza e la libertà del mezzo fotografico ora , ricerca l’emotività e l’essenzialità dell’immagine e una propria individualità creativa. Gli anni della formazione si chiudono profeticamente con una serie di opere dal titolo:”Mi ritiro a dipingere un quadro”. Come ha dichiarato lo stesso Paladino,”il titolo era più importante dell’opera, diveniva dichiarazione e bisogno primario di ritirarsi a dipingere dei quadri,a cercare un modo di essere diverso nelle cose”. L’artista beneventano non avverte più il significato sociale di fare un quadro, oramai accetta il ruolo dell’artista solitario “fuori del contesto sociale”, forse alla ricerca di una situazione totalmente libera da qualunque condizionamento. Il suo lavoro pittorico nasce essenzialmente dall’intreccio di riferimenti astratti e figurativi, dall’appropriazione e dallo sconfinamento di differenti matrici di lavoro (Klee, Kandinsky , Matisse). Tutta l’opera di Paladino vive una situazione transitoria; entra nello spazio della pittura e esce per incarnarsi dentro lo spazio della realtà. Egli stesso ci confida: ”credo che l’opera d’arte sia enigmatica, complessa e completa quando riesce a contenere molti dettagli che si svelano con il tempo e comunque non si svelano mai completamente”. Infatti, nel suo lavoro non vi è alcun tentativo di evidenziare una trama di racconto, l’esteriorità delle cose, ma vuole vivere l’evento in una dimensione molto più profonda e sospesa . Paladino, costruendo situazioni volutamente non definite, evita che la figurazione diventi descrizione e puro riporto. Le sue proiezioni interne-esterne tra dato bidimensionale e volumetria tridimensionale, tra geometria e figurazione nascono dall’esigenza di dare voce alle “emergenze interiori”, di procedere per frammenti pittorici e per lacerti raggrumati di realtà. Nella sua pittura viene messo in discussione il rapporto spaziale di superficie-sfondo, la consistenza dell’immagine, il senso della precarietà e anche una certa “ironia” che diventa spesso provocazione. Paladino ricerca “la non riconoscibilità”, gli piace giocare questo ruolo sottile, nel tentativo di capovolgere continuamente le situazioni al fine di trovare un modo di essere diverso nelle cose. Secondo lui, ”il vero problema di questo momento è quello di tentare di creare dei trabocchetti linguistici, parchè è l’unico modo per sfuggire, per non esserci, per cercare di essere sempre in un altro posto pur essendoci”. Insomma, Paladino ha bisogno che i fantasmi del pensiero emergano e occupino zone di spazio pittorico, che i personaggi o i frammenti dell’immagine vaghino dentro i luoghi impalpabili della visione. Nel suo lavoro, ciò ch’è superfluo è destinato a scomparire; per esempio, un tavolo risulta rappresentato con una sola gamba proprio perché l’immagine dell’oggetto rappresentato si “sorregge” per equilibri differenti rispetto alla forza di gravità di un vero tavolo. L’artista campano ha la capacità di proiettare il suo immaginario dentro un sorta di specchio che deforma, appiattisce e stravolge l’apparenza delle cose; a volte lo sviluppo logico spaziale dell’opera si presenta interrotto anche da elementi tridimensionali che vanno a sistemarsi dentro la pittura,e persino, al di fuori del comune spazio pittorico. Quella di Paladino è certamente una complessa figurazione che si alimenta di precari e inconsistenti frammenti di senso, dove il tempo, carico di mistero, sembra deformare le immagini, accumulandole in una zona intransitabile fino a dissolverle nel nulla. E’ proprio nella “frammentarietà” e nella precarietà della visione che Paladino ci rivela la dualità, la “scissione dell’io” e il grande vuoto dell’uomo d’oggi. Tutto ciò è dato dal rispecchiamento dell’io dell’artista nelle immagini di scavo esistenziale; l’io scisso, rilevato come flusso e”come traccia archeologica della memoria” non trovando l’unitarietà della visione si carica di ossessione, si sdoppia in tante diverse figure e alla fine vaga impavido alla ricerca di qualche significato ancora non completamente svelato. Una pittura, quindi, carica di suggestioni, intenta a evidenziare il mistero della rappresentazione - come dice Roberto Daolio- “ il mistero scavato e portato in superficie”.

Pubblicato su  Dialogo  n°136 - aprile/maggio, 1995  Anno XVIII         pag. 25