sabato 13 novembre 2010

LA CRITICA: Pino Pascali

(Dentro e Fuori l'Avanguardia)
di G. Bonanno

Saggi critici e recensioni su: Kengiro Azuma, Francis Bacon, Paolo Barrile, Carlo Carrà, Marc Chagall, Jean Dubuffet, Franco Francese, Antonio Freiles, Max Huber, Gabriele Jardini, Osvaldo Licini, Ruggero Maggi , Kazimir Malevic, Mattia Moreni, Idetoshi Nagasawa, Emil Nolde, Mimmo Paladino, Pino Pascali, Mario Raciti, Roberto Sanesi, Francesco Somaini, Chaim Soutine, Graham Sutherland, Jorrit Tornquist, Willy Varlin, Wols.



-Pino Pascali: Il teatro dell’immagine
Dopo la mostra organizzata sei anni fa al PAC, ritornano a Milano alcuni lavori di Pino Pascali,ospitate alla galleria Arte 92 di via Moneta.Una piccola mostra ben organizzata con alcune opere interessanti dell’artista pugliese, che coprono un arco di tempo breve,ma abbastanza significativo(64—68), prima dell’improvvisa morte avvenuta a Roma nel 1968,a causa di un tragico incidente all’età di soli 33 anni.Sono in mostra la serie delle“Armi”e del cannone “Bella ciao” del 1965, “Il ponte” di lana ed acciaio del 1968, la “Decapitazione delle giraffe” del 1966, inoltre, sono documentati i cicli delle “Sculture bianche” e degli “Elementi della natura”. Pino Pascali era nato nel 1935 a Polignano a Mare, nonostante la sua giovane età, nel 1968 era già un’artista abbastanza conosciuto e aggiornato. Negli ultimi anni, sempre più spesso,lavorava con forme volutamente ingigantite utilizzando i materiali che lo interessavano. Non desiderava utilizzare una tecnica prestabilita, ma cercava volta per volta varie possibilità di intervento, suggerite soprattutto dalle suggestioni immediate degli eventi vissuti.In una intervista su”Marcatre”del maggio 1968, alcuni mesi prima di morire aveva dichiarato:“La tecnica è la mia vita,ogni volta cambia” e aggiungeva “appena hai fatto una cosa, la cosa è finita”.In quella occasione,alla domanda di Marisa Volpi Orlandini: “Che valore dai alla tecnica del tuo lavoro,che cosa spinge a lavorare con i tuoi materiali“primari”, aveva risposto declamando una insolita filastrocca in dialetto pugliese: “Evviv a Carlo Magno ch va-n dall’acque e non s’abbagne ch va-n do fuek e non s’abbrusce ch va-n du camp e’n se sprtuse “ Questa filastrocca apparentemente senza significato, ci rivela invece il vero senso del fantastico e la giusta chiave di lettura del suo lavoro, convinto che non bisognava chiudersi in formule di lavoro già sperimentate ma tutto doveva essere acqua, vita, gioco e ricerca spontanea; in fondo cercava di fare quello che gli piaceva, questo era l’unico sistema che conosceva e che gli andava bene. Nelle sue mani, qualsiasi materiale, dopo averlo sottratto all’evidenza ovvia del quotidiano diventava forma e quindi immagine prepotente, la finzione o l’incanto trovavano così la giusta dimensione per emergere e materializzarsi in atmosfere da favola, in piacevoli “teatrini dell’immagine” dove la fantasia era capace di trasformare l’ironia in sogno e modellare magicamente i pensieri in strane favole.

Pubblicato su  Dialogo  n°131 - gennaio/febbraio,  1994  Anno XVII         pag. 25