(Dentro e Fuori l'Avanguardia)
di G. Bonanno
Saggi critici e recensioni su: Kengiro Azuma, Francis Bacon, Paolo Barrile, Carlo Carrà, Marc Chagall, Jean Dubuffet, Franco Francese, Antonio Freiles, Max Huber, Gabriele Jardini, Osvaldo Licini, Ruggero Maggi , Kazimir Malevic, Mattia Moreni, Idetoshi Nagasawa, Emil Nolde, Mimmo Paladino, Pino Pascali, Mario Raciti, Roberto Sanesi, Francesco Somaini, Chaim Soutine, Graham Sutherland, Jorrit Tornquist, Willy Varlin, Wols.
IL TEATRO DELL'ESSENZA
SHOZO SHIMAMOTO / “Inside and outside the body”
(dentro e fuori il corpo).
L’artista giapponese, considerato il "kamikaze del colore” intende
la pittura come azione forte, sentimento prepotente capace di travolgere
e triturare qualsiasi precaria certezza. Le bottiglie di colore che lancia
direttamente sulle tele servono a liberare i suoi tormenti, le sue paure. La
sua pittura, se così vogliamo chiamarla, nasce dal gesto dell’artista che
agisce a contatto con il pubblico, per definirsi e condensarsi in opera. Nei
suoi interventi non è importante l’atto finale che porta alla realizzazione
dell'oggetto, ma l’azione diretta, il suo svolgersi nel momento stesso che si
fa colore. Ciò che conta è riuscire a materializzare l’energia e di colpo
svelarla come in un precario battito d’ali. Per questo, Shozo Shimamoto si affida alla performance come
pratica necessaria a liberare le energie accumulate dentro di sé nel momento
stesso dell’accadimento e dell’azione. A volte, l’opera viene creata
anche all’aperto, a contatto con gli eventi atmosferici; il vento, la pioggia,
la neve fanno parte dell’azione
dell’artista con un contributo del tutto casuale nella definizione finale
dell’opera.
Alla fine degli anni '50 vi è stato un momento
casualmente convergente in cui artisti di diversa area geografica (America,
Europa, Giappone) hanno indagato, quasi nello stesso momento, in una identica
direzione approdando ognuno a modo proprio, a risultati del tutto
differenti ma condivisibili. Arte concepita come flusso diarroico di energie
primarie che si materializzavano in un succedersi continuo emulando i
momenti della vita. Flusso del tutto caotico in cui le arti vengono a
contaminarsi e a definirsi in modo originale. Per certi versi il suo modo
di fare "pittura”, potrebbe essere paragonato all’Action Painting di Jackson Pollock. In verità, le opere di Shozo condividono i
profondi pensieri della filosofia Zen, una concezione della vita del tutto
diversa da quella personale dell’artista americano. In
Pollock vi è alla base una motivazione prettamente esistenziale;
l’uso del dripping e del proprio corpo dentro la
tela, seppur gestuale, è un atto ancora pittorico e
prettamente privato. Per l’artista giapponese Shozo Shimamoto, invece, creare
significa agire a contatto con il pubblico, avere un rapporto proficuo con gli
altri, farsi evento, rivelazione.
Per lui non è importante l’opera "definita
e finita”, ma l’evento provvisorio che si materializza in opera. L’arte,
quindi, non è pura descrizione delle cose, è intesa come la
materializzazione di una idea, di un pensiero fluttuante che lascia la mente per
divenire gesto di liberazione; liberazione di pulsioni e di energie
spesso soffocate che prendono il volo e incontrollate si
disseminano sulla tela. Non a caso, in diverse opere create da Shimamoto,
i frammenti di oggetti vengono lasciati volutamente a sedimentare, assorbiti
dal colore come parte significante dell’opera, (vetri di bottiglia,
lattine, sandali), oggetti sopravvissuti all’uragano e alla furia di questo
autentico Kamikaze della performance. Massimo
Sgroi, lo definisce "l’artista
contemporaneo che non rappresenta più colui che produce un’opera pittorica, ma
ricopre il ruolo di mediatore tra la realizzazione di un’idea (la sua) e colui
che la vive". In questo senso,
l’artista si fa promotore di un "vissuto”, diventa il regista di un
evento unico, altamente creativo e suggestivo.
Il Teatro dell’essenza
Per
Shimamoto, azione, happening, performance, pittura, tutto diventa materia di
uso per creare un’opera. Per
diversi decenni ha sottolineato l’uso
spericolato dei materiali
accentuando negli anni ‘60 il gesto e poi l’evento artistico
sconfinando spesso nella spettacolarità e nel happening. Con estrema libertà
Shimamoto ha attraversato esperienze e ricerche diverse e
apparentemente incompatibili tra loro; dalla pittura Informale ai buchi, dalla
Mail Art alla Body Art, dall’installazione alla performance fino all’uso della fotografia, del video e
persino del film d’artista. Il critico del New York Times Roberta Smith lo ha
definito come “uno degli sperimentatori
più audaci e indipendenti della scena dell'arte del dopoguerra negli Anni
Cinquanta”. Del resto, Gutai, corrente artistica
giapponese fondata nel 1954 ad Osaka da Jiro Yoschihara e di cui Shimamoto è
uno degli interpreti più importanti è una parola che in giapponese
significa conflitto tra materia e spirito, e di fatto, Gutai ha
prodotto una evidente rottura con la
tradizione e l'arte spirituale giapponese
introducendo la materia nel rapporto con
la vita in un momento storico
condizionato fortemente dai tragici eventi bellici come quelli di Iroshima e Nagasaki. Una spiritualità
concretizzata nella materia. Il termine “Gutai”, significa anche “concreto”. Una decisa volontà di creare
forme espressive nuove, diverse, libere da qualsiasi tipo di proposta consueta
di tipo accademico, come il disegno, la bella
pittura fatta con il pennello. Insomma, l’artista nipponico cambia il concetto consueto di creazione artistica
grazie alla ricerca e alla sperimentazione, anticipando esperienze
importanti come l’ Action Painting e il
movimento Fluxus americano sorto circa
dieci anni dopo ad opera di George
Maciunas. Attraverso la
dimensione sofferta e lacerata dei tempi, attraverso la forte frattura con la
tradizione, l'arte
intesa come la mediazione della mente cerca di mettere in
mostra le qualità intime, la libertà e l’energia insostanziale della materia.
Tutto ciò che era prima tradizione ora è
materia sciolta e fluida che inizia a rivivere.
Per cui, il rapporto fra artista e materia appare invertito: sono gli artisti a
porsi al servizio dell’opera, anziché dominarla con la propria arroganza e prepotente sensibilità poetica.
Shozo
Shimamoto alcuni anni prima del 1950
aveva già realizzato una serie di opere aprendo uno squarcio concreto sulla superficie della pittura.
Anche queste opere, sono nate come
risultato di un`azione casuale.
In quel periodo, per risparmiare sui materiali, Shimamoto usava come
base carta di giornali incollati, tuttavia,
un giorno per sbaglio fini` per
fare un buco su una superficie di carta
fragile. D`istinto Shimamoto si accorse
che si trattava comunque di un`espressione. E` interessante sottolineare come
circa nello stesso periodo in Italia, Fontana tentava di aprire dei fori sulla
tela e successivamente i tagli, tuttavia, bisogna notare come i primi buchi e tagli di
Fontana risalgono al 1949, come sono testimoniate dai cataloghi e dalle mostre
svolte, mentre Shimamoto di certo ha iniziato a fare i primi buchi nel
1946, praticamente tre anni prima di Fontana. Inoltre, occorre aggiungere che i Maestri Gutai dal
1949 erano in Europa già molto
conosciuti con le loro opere, invitati dallo scrittore e artista francese Henri
Michaux. Solo nel 1994,
durante la mostra "l'Arte giapponese dopo il 1945: il Grido Contro il
Cielo" tenutasi al Museo Guggenheim
in New York, il curatore Alexandra MONROE scopre che i "Buchi" di
Shimamoto sono antecedenti ai buchi di Fontana (sulla polemica
Shimamoto-Fontana cfr. il sito della Tate Gallery). Nel 1955 durante la “Prima Esposizione d'arte moderna all' aperto,
Shimamoto espone una lamiera frammentata da piccoli buchi dipinta da un lato di
bianco e dall' altro di blu. Sempre nel
1955 Shimamoto partecipa alla “Prima
mostra Gutai” all'Ohara Kaikan di Tokyo: per l’occasione presenta l’opera “Prego, camminate qui sopra” realizzata
con una serie di assi di legno montate su un sistema di molle che rendono il
percorso del visitatore precario e instabile alterando la sua reale
stabilità. Di questa opera, negli anni novanta l’artista realizzerà diverse
ricostruzioni. Nel
1956 con "Cannon Work" testimonia la origini delle sue azioni di pittura
all'interno della poetica Gutai: vengono sparati da un cannone, appositamente
costruito dall'artista, i colori che si
depositano casualmente sulla tela
in modo casuale e provvisorio. Nel 1957
Shimamoto firma ufficialmente il Manifesto “per una messa al bando del
pennello”. L'aspetto più evidente della
concretezza del movimento Gutai e in particolare di Shimamoto è sicuramente
l'azione, intesa come dinamismo
della creazione che diventa, appunto, evento e rivelazione. Non poteva essere
altrimenti. Nel 1957 il gruppo Gutai
ideò il "Gutai Stage Exhibition": per la prima volta nella storia fu
utilizzato un palcoscenico come spazio artistico nel quale Shimamoto metteva
assieme lo sparo dei colori con un
particolare sottofondo sonoro. Nel 1958 durante la seconda esibizione
“Arte Gutai sulla scena” alla Asahi Kaikan proietta contemporaneamente sullo
stesso schermo due diverse pellicole realizzate da lui stesso.
Così dichiara in una
sua testimonianza: “Per questo evento
decisi di fare qualcosa chiamato ‘Il Film mai visto al mondo’ ”. Su una
pellicola usata di 35 mm, cedutagli da un suo ex alunno, e poi lavata
nell’aceto, disegna punti e linee.
Confessa: “L'arte come gesto artistico, consiste nello stupire lo spettatore”, e aggiunge,
“Al presente io mi faccio fare dei disegni sulla testa rasata oppure mi
faccio proiettare dei film, ma non allo scopo di fare cose strane. L'opera
d'arte è di per sé un'espressione libera, l'atto di dipingere è proporre
un'espressione libera. Questo è il vero compito dell'artista." E poi,
“nelle performance il corpo è impiegato come elemento di Natura, quindi in
entrambi i casi credo di avvicinarmi al Taoismo col quale del resto è in linea
tutta la mia formazione di pensiero”. Di certo, il rapporto
con il pubblico rimane un aspetto essenziale
in tutta l’opera di Shozo Shimamoto con l’utilizzo della performance intesa come azione dell'uomo nel
tentativo di annullare qualsiasi distinzione tra l'arte e la vita. E’ del ’95 la realizzazione del suo “funerale in vita” col rito Buddista
mentre dodici monaci recitavano un sutra.
Tra il “mostrare e l’essere” Shimamoto sceglie
“l’essere” e l’utilizzo del corpo che mettendosi in relazione crea il messaggio
creativo. Praticamente un’arte diretta, corporea e viva utilizzando il corpo
come strumento relazionale, comunicativo e poetico in una zona marginale di
confine tra linguaggi diversi, in cui la
pittura, l’evento e il teatro convivono
dando vita alla rappresentazione dell’essenza e dell’energia concreta. Giovanni
Bonanno
Shozo Shimamoto: avere un’idea per la testa
Shozo Shimamoto, scrive: “Con la mia testa rasata, nel 1987 sono
stato in America ed in Canada, e ho poi viaggiato nel 1990 in Europa da Londra
fino a Leningrado. Nel 1993 sono andato in Italia ed in Finlandia. Durante le
mie tappe sono stato accolto da molti artisti della mail art che hanno scritto
i loro messaggi sulla mia testa, oppure vi hanno proiettato diapositive o anche
film. Tutti infatti erano pronti ad aspettarmi con alcune idee in mente. Nel
1988 un mio studente mi portò una copia della rivista che aveva trovato nella
tasca del sedile dell'aereo della JAL in un volo Tokyo-Parigi. Era una sorta di
guida del Giappone dove si presentavano in lingua inglese le bellezze dei
templi buddisti, le informazioni sui piatti tipici e quant'altro. Ma fra le
altre cose, nella pagina che trattava di cinema, era anche riportata come
curiosità la possibilità di vedere un film proiettato sulla mia testa, con
tanto di illustrazione disegnata a mano. Senza saperlo, la mia testa rasata
stava volando in giro per il mondo. Nel 1987 spedii agli artisti della mail art
un foglio con stampata la silhouette della mia testa vista da dietro ed un
messaggio in cui invitavo gli artisti a fare il loro intervento. Ricevetti
circa 500 risposte. Il fatto che le risposte fossero così numerose è dovuto al
sistema del network caratteristico dell'arte postale, in cui non è raro che
degli artisti copino e reinterpretino il contenuto originale per poi stamparlo
di nuovo inviandolo ad altri artisti e così via. [...] Un giorno mi arrivò una mail art molto
singolare. Proveniva dalla Francia e l'autore era Pascal Lenoir, anche se il
foglio originale era partito dall'artista olandese Cor Reyn che aveva a sua volta fotocopiato
la mia testa e inserito il messaggio di invito a disegnarvi dentro qualcosa.
Ebbene Lenoir dentro alla mia testa fotocopiò una decina di altre silhouette
rimpicciolite della stessa , riproponendo l'invito a disegnarci dentro
qualcosa, e la spedì anche a me. Vedendola, non riuscii a trattenermi dal
ridere. Il pezzo di mail art che avevo spedito io si era moltiplicato, il
numero delle teste era aumentato, e passando per diverse vie era ricapitato
proprio a me con la scritta: Perché non partecipi anche tu? Nell'arte postale
non ci sono i diritti d'autore, anzi, all'opposto lo spirito che la caratterizza
è quello di invitare gli altri ad usare senza limiti i vari contenuti. Così è
possibile che a mia insaputa un mio pezzo venga modificato, arricchito di nuove
idee, e ritorni al mio indirizzo. L'americano Cracker Jack Kid addirittura
spedisce dei modellini tridimensionali della mia testa” .
Di certo, una parte di lavoro di Shozo Shimamoto risulta ancora poco
noto, e precisamente la ricerca svolta negli anni 80 e 90 in ambito della Mail
Art, una stagione vissuta non in modo marginale, bensì come protagonista principale. Sono in parte
noti le sue particolari azioni, i suoi messaggi di pace
e le proiezioni di spezzoni di film
sulla sua testa rasata utilizzata come spazio e luogo
per ospitare l’opera.
Praticamente, quasi una galleria del corpo a cielo aperto; forse “la più
piccola galleria ambulante al mondo attiva negli anni 80”. In questa mostra
collettiva internazionale, a margine della rassegna vi sono presenti diverse
immagini che documentano tale attività a corollario del progetto di Mail Art “Head”
concretizzato proficuamente tra gli anni 80 e 90, come risulta dalle
“oper/azioni” realizzate sulla sua testa rasata
da personaggi come Ray Johnson,
Ben Vautier, G. Achille Cavellini, Mayumi Handa, Allan Kaprow e diversi altri protagonisti
internazionali dell’arte che sono intervenuti sulla testa dell’artista
giapponese disegnando, incollando carte, materiali diversi e persino
proiettando frammenti di film. Dopo
la morte dell’artista, per ricordarlo a oltre due anni dalla scomparsa abbiamo
ritenuto utile non inviare per posta la
solita testa rasata di Shozo Shimamoto. Questa volta è stata spedita per tutto il 2014 a diversi artisti, una
Card digitale creata appositamente da
Giovanni Bonanno dal titolo: “Virtual Fluxus
Poetry”, con una piccola sala vuota a forma di nicchia ad
arco in cui sembra che
aleggi il fantasma della testa rasata di Shozo Shimamoto.
In questo “spazio apparentemente vuoto” abbiamo, come aveva fatto lui a partire dal 1987, invitato gli artisti
a realizzare il proprio intervento performativo chiedendo
a loro di inserire ciò che ritenevano
utile per completare degnamente
l’opera.
Un’ultima considerazione, per
evitare possibili equivoci di qualsiasi
sorta riguarda la partecipazione attiva di
Shimamoto al gruppo giapponese Gutai; esperienza nata
concretamente negli anni 50’, quasi
un decennio prima della proposta americana del movimento Fluxus. Il titolo “Virtual
Fluxus Poetry” utilizzato da noi nelle due mostre organizzate non deve trarre
in inganno, non deve essere
inteso o peggio “frainteso” come reale partecipazione attiva nell’ambito del
movimento Fluxus ma come convinta concezione e condivisione poetica di
“flusso immateriale”, di energia
poetica a cui Shimamoto è stato
lungamente interessato, (il termine “fluxus”
“dal latino. tardo fluxiōne,
deriv. di flŭxus, part.
pass. di fluĕre, significa ‘scorrere, fluire). Del resto, sono
risaputi gli intensi scambi intercorsi negli anni 60’ tra il Gutai , il movimento Fluxus e la scena artistica di
Parigi, Milano e Torino. Non è un caso,
quindi, che nella stanza, apparentemente
vuota della card inviata per posta, la
silhouette della sua testa vista da dietro
affiora magnificamente come energia e flusso immateriale, inaspettata e “fluida”, presenza insostanziale perfettamente in linea con le
idee di ricerca portate avanti
lungamente dal grande artista giapponese,
pronta a ricevere l’apporto comunicativo
e creativo di tanti artisti internazionali
per essere compiutamente completata. Giovanni Bonanno